BASKET - Charlie Recalcati si ritira: "Grazie Leggenda, 60 anni di passione". Con la Viola nel cuore

26.09.2018 10:59 di  Redazione Tuttoreggina  Twitter:    vedi letture
BASKET - Charlie Recalcati si ritira: "Grazie Leggenda, 60 anni di passione". Con la Viola nel cuore

Resta e resterà per sempre uno dei Grandi dell'età d'oro dello sport reggino. Charlie Recalcati è passato da Reggio, sulla panchina della Viola Reggio Calabria, prima ad inizio anni '90, poi per qualche giorno nei giorni del ciclone Mimmetto Barbaro.

Lo storico coach, poi divenuto ct della Nazionale azzurra, ha annunciato, seppure in sordina, del suo ritiro dal basket e Gazzetta dello Sport lo ha intervistato per tracciare un bilancio:

"L’ultimo Dinosauro del basket italiano si è estinto un giorno di inizio dell’estate 2018, ma la notizia è uscita solo ieri. Charlie Recalcati, 73 anni portati alla grande, prima campione in campo (2 scudetti e 7 coppe internazionali con Cantù) e poi in panchina (tre scudetti in tre piazze diverse, record italiano condiviso con Valerio Bianchini; bronzo europeo e argento olimpico alla guida della Nazionale), lo ha annunciato ieri come fosse un evento scontato: «La decisione di ritirarmi dalla panchina l’ho presa qualche mese fa. Avevo qualche offerta sul tavolo, ho declinato una proposta interessante di un club serio di A-2 perché non volevo riprendere ad allenare. L’ho detto al mio agente, ma la notizia del ritiro non è mai uscita. Non sentivo il bisogno di pubblicizzarla, non sono un tipo social che ama mettersi in mostra, ma l’altro giorno, incalzato da un cronista che mi chiedeva quando pensavo di rientrare ho risposto che non ci pensavo proprio perché la mia carriera è finita dopo la breve parentesi a Torino».

Coach, c’è un episodio o un motivo che l’ha spinta a lasciare?

«Già dai tempi di Venezia avevo programmato questo passo, l’accordo col presidente Brugnaro era che avrei ceduto il posto a De Raffaele, mio vice alla Reyer, per fare da senior assistant. Poi venne l’esonero e quel piano sfumò. In tutti questi anni per andare avanti mi sono sempre rapportato con l’età e le condizioni fisiche, mi piace essere al 100% quando lavoro. A Torino per la prima volta ho sentito suonare un campanello d’allarme: una brutta bronchite che mi ha molto debilitato. Ho capito che non potevo più essere quello di prima anche se mi sento benissimo».

Charlie e il basket: che film è?

«Ho vissuto 60 anni tra i canestri, partendo dall’oratorio Pavoniano di via Giusti a Milano. Avevo 13 anni quando fu costruito un campetto da basket accanto a quello da calcio. Io prima ho cominciato a giocare poi mi sono appassionato diventando tifoso dell’Olimpia. Riminucci era il mio idolo. Arnaldo Taurisano venne ad allenare al Pavoniano, mi scoprì alla leva del 1957, ero uno scricciolo, non giocavo coi più grandi poi venne il mio momento. Nel 1962 Gianni Corsolini mi portò a Cantù in serie A. Lì è cominciata la mia carriera che è decollata col primo scudetto canturino del 1968 sotto Boris Stankovic, il coach che cambiò la mia testa. Con lui mi trasformai da giocatore di sistema a tiratore sul modello slavo. A quei tempi non avrei mai pensato di allenare, mi vedevo solo come giocatore. Ho avuto pochi e grandi maestri. Col c.t. Primo non ero in sintonia anche se poi ho rivalutato il suo lavoro e la sua organizzazione difensiva in Nazionale».

Com’è che ha cambiato idea sul coaching?

«Sono diventato allenatore per caso. Avrei voluto giocare fino a 60 anni come ha fatto Aldo Ossola, ma quando scesi in B a Parma il coach si dimise prima dell’inizio del campionato e Gian Matteo Sidoli, ex arbitro e poi manager, mi convinse a fare il grande passo. Accettai per gradi, facendo il giocatore-allenatore. Poi passai a Bergamo: avrei dovuto solo giocare, ma anche lì saltò il tecnico e finì che andai in panchina a tempo pieno».

Tante squadre e panchine: 932 in Serie A (con 546 vittorie). E tanti record: il decimo scudetto di Varese, il primo di Fortitudo e Siena, la finale olimpica con la Nazionale ad Atene 2004. Come li mette in fila?

«Esperienze diverse. A Varese ho liberato il talento dei giovani, Poz e Andrea Meneghin in primis. Alla Fortitudo ho guidato la mia squadra più forte di sempre che però doveva sconfiggere una fortissima pressione negativa. A Siena ho raccolto in anticipo un titolo che doveva arrivare 2-3 anni dopo. In Nazionale metto il bronzo di Svezia 2003 davanti all’argento olimpico perché dovevamo arrivare almeno nelle prime 3 per andare ad Atene l’anno dopo. Il nostro segreto fu la “lammite” di Davide Lamma, il play di riserva che ci diede un’energia incredibile».

Rimpianti?

«Nessuno nella sostanza, uno sui generis: da milanese tifoso Olimpia avrei sperato di giocare a Milano, ma non ci ho perso il sonno. Un anno ci andai vicino: in una leva giovanile dovevano scegliere tra me che ero alto 1.83 e un mio coetaneo di 2.04. Ovviamente scelsero il lungo. Chi lo decise? Cesare Rubini che in seguito riconobbe l’errore».

Qual è il suo quintetto ideale tra i compagni di squadra?

«Marzorati, A.Riva, Frigerio, Della Fiori, Lienhard».

Quello degli avversari?

«Ossola, Kicanovic, Dalipagic, Vittori, D.Meneghin».

Il quintetto dei giocatori che ha allenato?

«Pozzecco, Myers, A.Meneghin, Volkov, Jura. Lasciatemi aggiungere anche Basile, Vanterpool e Galanda».

Quale eredità lascia Charlie Recalcati?

«Il giudizio lo lascio agli altri. Come coach mi sono adeguato ai tempi e ai sistemi guardando avanti senza fare paragoni col passato»".